
Con questo lungo post non vado in vacanza solo dalle icone, ma anche dai discorsi seri, che non amo troppo (chi mi conosce, lo sa); convinta che anche con il sorriso e l’umorismo si possano dire cose comunque molto serie.
Quando leggo i libri di montagna (quelli del Corbaccio, per capirci), gli autori raccontano sempre di imprese epiche, di morti e di tragedie… Io, invece vorrei raccontarvi la montagna dal suo lato più divertente e, a tratti, anche fantozziano… la montagna del sorriso.
Non la montagna degli «ironman» e delle «supergirls», ma quella montagna comunque bella, divertente, seppure impegnativa, esigente e rigorosa, che può essere amorevolmente camminata anche da quella sorta di «animali da cortile» come me (forse anche come te che stai leggendo)… da quelli che della montagna amano i fiori, i pini mughi, le mucche al pascolo, il «poccino» nel ruscello e lo strudel… e che, anche lungo una ripida salita, di tanto in tanto alzano la testa a contemplare le pareti, le torri, le vette e compensano la fatica con respiri di bellezza.
Bene, fatta questa premessa ancora abbastanza seria, chi ha voglia, mi segua per quattro giorni di «Alta Via delle Dolomiti 1».
Per la cronaca: il primo giorno siamo partiti dal passo Giau per il rifugio Città di Fiume; il secondo giorno, dal rifugio Città di Fiume abbiamo fatto il giro del Pelmo tenendolo sulla destra (via forcella Val d’Arcia), quindi verso il rifugio Venezia, da qui siamo discesi al rifugio Pala Favera e poi risaliti al rifugio Sonino al Coldai; il terzo giorno, dal Coldai al rifugio Vazzoler, con deviazione al rifugio Tissi e alla cima di Col Rean; il quarto giorno, dal Vazzoler a Pecol, via forcella delle Sasse (la nostra «cima Coppi»). Se soffrite di insonnia, rileggete cinquanta volte queste cinque righe e poi ditemi se funziona.
Bene: zaino in spalla, fatto a regola d’arte, secondo un’antica lista composta da: cose che userai tutti i giorni, cose che potresti usare e cose che speri di non usare (tocchiamo ferro!).
Prima di partire, ci infiliamo dentro un po’ di provviste (nel mio, 60cm di baguette, fatti fuori in due giorni… e poi altra roba altamente salutare - tipo speck, salame, cioccolata -… «non di solo pane vive l’uomo») e si riempie di acqua la borraccia ad una delle tante fontane sparse in giro per il paese.
Partiamo!!!
Se lungo i sentieri di montagna incontri di tutto, nei pernottamenti in rifugio incontri anche di più; ma, la cosa bella di questi giorni è stata che, percorrendo l’Alta Via, ogni sera, al rifugio successivo, reincontravamo le stesse persone, che pian piano abbiamo «battezzato»: c’era il gruppo degli spagnoli, che mangiava fette di torta vegana al grano saraceno (che però lasciava sul loro volto un’espressione triste e poco appagata; mentre gli italiani, che mangiavano strudel e crostate al burro, erano molto più sorridenti); poi c’era il gruppo dei francesi, un po’ anzianotti, con un componente della comitiva che, alla terza birra, si scaravoltava dalla panca senza fare neanche una piega; poi la famiglia degli inglesi (papà, mamma e due figli), con il papà che partiva per l’escursione con camicia a righe da ufficio; i due giovani romani (di cui parlerò più dettagliatamente in seguito), i veneti (naturalmente mariti e mogli gioviali e beoni, con un curriculum da alpini e da mogli degli alpini).
Poi, in rifugio, ci sono i «tipi»: c’è il «tecnologico» (quello che, da solo, occupa tutte le «ciabatte» per le ricariche e che, tra chili e chili di strumenti made in Euronics, sicuramente ha anche un «parafulmini wi-fi»), il «solitario» (in genere votato alle grandi imprese, forse anche impossibili, così si capisce anche perché viaggi da solo; in genere è alto, non so perché), la «mistica» (sempre con un diario su cui annota non si sa cosa e un alone di mistero attorno alla sua persona, si muove silenziosamente ed ha lo sguardo perso nell’eternità; ogni tanto appare inaspettatamente - dal momento che non produce rumore - dietro un angolo o un anfratto, e tu prendi paura), gli «sporchi» (solitamente - e paradossalmente - in comitiva: quelli che arrivano al rifugio e, anziché farsi la doccia, bevono quattro o cinque birre, convinti forse che lo scorrere interiore dell’alcool, disinfetti anche l’esterno… solitamente hanno i capelli unti e le maglie di cotone con le chiazze di sudore permanente) e gli «ironman» (solitamente in coppia uomo-donna, vestiti rigorosamente Salewa, corpi scolpiti, depilazione laser integrale, con muscoli che li riempiono di orgoglio; sono quelli che non sbagliano mai, non devono chiedere mai… e, la cosa strana, è che poi sui sentieri non li vedi mai, solo in rifugio e non si sa da dove siano arrivati: secondo me stazionano lì, senza mai fare un metro o un’ascensione, solo per ostentare tutto quel «ben di Dio»; essi camminano con l’imbrago anche per andare a cena e fanno pendant con quelli come noi che hanno il fisico da animali da cortile).
Poi c’è la gente che incontri sui sentieri, con cui scambi un saluto o anche qualche parola e informazione; e ci sono quelli che non incontri, ma che ti precedono o ti seguono sul tuo stesso sentiero, che diventano quasi dei compagni di cammino a distanza e che un po’ ti prendi a cuore quando capisci che si tratta di gente non troppo sul pezzo e poco avvezza all’alta montagna (tipo quelli che camminano con felpa e jeans, o che salgono indossando il k-way); e quando, ogni tanto, ti volti indietro e li vedi dall’alto superare le difficoltà ed i punti critici, ti senti contento anche per loro e, con loro, tiri un sospiro di sollievo.
Lungo i sentieri (e poi ai rifugi), incontri anche la categoria di «quelle che ci seppelliranno tutti»: solitamente sono donne, di almeno 70 anni di età; se di origini venete, con i capelli bianchi e corti; se di origini milanesi, con i capelli tinti e la permanente, sempre comunque corti… Sono quelle che, mentre scendi un ghiaione a serpentina e fai fatica a stare in piedi anche da fermo, loro lo salgono diritto e senza fiatone; quelle che, pelle abbronzata, arrivano al rifugio con l’imbrago da ferrata senza neanche una goccia di sudore, asciutte come appena partite e non puzzano mai, quelle che hanno la pressione 120-80, che a 2500m riescono a dormire tutta la notte, russando pure, e che, alla fine della cena (durante la quale spazzolano fino in fondo persino le oliere), si fanno anche un giro di grappa… e poi la tisana rilassante (quella gliela concediamo) per dare la parvenza di essere salutiste, deboli, fragili e indifese.
Accanto alle persone dei rifugi e dei sentieri, ci sono tutte quelle scene che potremmo catalogare sotto il nome di «vita in rifugio»: spaccati di cene belle cariche (sempre poco sane, ma chi se ne frega), di birre che mettono allegria, di «profumi» e di… abilità. Sì, la vita del rifugio rivela delle abilità nascoste. Per esempio, se vuoi riuscire ad entrare nella camera, sistemartici e dormirci, devi essere pratico del «gioco dei quindici» (ricordate? Quello dove sposti le varie caselline e ne hai sempre una vuota che è proprio quella che permette lo spostamento delle altre), perché, solitamente, le camere dei rifugi sono stipate di letti: lo spazio per appoggiare uno zaino, aprire una porta e, ovviamente, quello dei corpi occupanti, non viene contemplato nell’«organizzazione architettonica» - chiamiamola così -. Allora succede che, se uno si sposta, un altro riesce ad aprire la porta, poi però un altro deve sedersi sul letto e tirarsi lo zaino sulla pancia per permettere ad un terzo di uscire dalla porta appena aperta… Ecco, quando si trova la giusta sincronizzazione, la camera del rifugio diventa vivibile… Talvolta è quasi bello alzarsi a notte fonda per andare in bagno, perché hai tutto lo spazio per te e, allora, un’unica persona si sposta, apre la porta e riesce ad uscire: soddisfazione... talvolta, però, inciampa nello zaino che ha dimenticato di spostare.
Sinteticamente, possiamo dire che le camere del rifugio contemplano una situazione statica di persone nel letto, ma non la situazione dinamica dei movimenti e degli spostamenti, degli ingressi e delle uscite.
Un’altra abilità che il rifugio richiede è quella della doccia (ormai la trovi in quasi tutti i rifugi, tranne «gli sporchi» che non la trovano mai). Per chi non è molto avvezzo, preciso che la doccia calda in rifugio è a pagamento: si compra un gettone e si può godere dell’acqua calda per un tempo determinato, preannunciato dal gestore al momento dell’acquisto del gettone. Nei rifugi fatti in sequenza quest’anno era richiesta un’abilità crescente: la prima doccia durava 6 minuti (di lusso!), la seconda 4 (ok), la terza 3 minuti (…). Ecco, quest’ultima richiedeva davvero una certa abilità, anche perché lo spazio a disposizione era di 50 x 50cm e il getto della doccia copriva tutta l’area interna (ancora peggio che nelle camere); allora, cosa succedeva? Infilavi il gettone ed usciva l’acqua ustionante … sulla pelle che aveva preso il sole tutto il giorno (e tu ti sentivi il povero maiale di turno); in quest’ultimo rifugio, c’erano tre docce, una di fianco all’altra, per cui si udivano nitidi e chiari i gemiti e le urla di sofferenza dei vicini (in due ci stavamo bruciando e quello in mezzo, il romano, invece, stava ghiacciando)… al ché si levò un urlo dalla terza doccia «c’è il regolatore!»… Già trovato, peccato che da quando giravi la manopola a quando cambiava la temperatura passavano circa 30 secondi… mentre l’acqua bollente (o gelata) scendeva inesorabile, senza che lo spazio a disposizione permettesse di evitarla… e tu dovevi starci sotto per forza (e allora quasi quasi invidiavi gli «sporchi»). Ma non bisognava distrarsi… 3 minuti passano in fretta, quindi, l’abile frequentatore di rifugi è quello che è capace, contemporaneamente, di: soffrire, regolare la temperatura dell’acqua, insaponarsi e risciacquarsi (c’è anche chi - i campioni - riesce, in aggiunta, a lavare i vestiti usati durante il giorno, evitando il congelamento delle mani facendo la stessa operazione in un secondo momento ai lavandini con l’acqua solo fredda). Bene, devo dire che sia io che uno dei miei compagni di cordata ce la siamo cavata bene in questa prova… È, invece, andata meno bene al povero ragazzo romano, che, ad un certo punto, sconsolato, emise una parolaccia… Dopo qualche secondo, non si sentiva più nessun rumore di acqua corrente uscire dalle tre docce e si vide dalla porta a soffietto fare capolino un braccio completamente insaponato, bello bianco (probabilmente Badedas aloe e camomilla), e una voce che chiedeva se gentilmente (ma, direi, anche compassionevolmente) qualcuno potesse andare a recuperargli un gettone in modo tale da potersi risciacquare (solo che noi dovevamo ancora rivestirci, per cui passarono almeno 5 minuti prima che potessimo andare a recuperare il gettone… nel mentre, altre parolacce, gemiti e tristezza… per il nostro povero compagno di rifugio infreddolito… ma insaponato a dovere.
Per restare in tema, un’altra abilità degna di nota che la vita del rifugio tira fuori è quella del bucato; più che un’abilità, è una prova di resistenza, perché l’acqua dei lavandini ha la temperatura del ghiaccio appena sciolto e allora … vai di gemiti, urla, lacrime e mani rosse!
Anche qui, vi consegno una simpatica vignetta di quest’anno: in un rifugio c’era un cartello bello grande, scritto almeno in tre lingue, posto sopra i lavandini, con scritto che, per questioni di risparmio idrico, era vietato lavare indumenti… Sotto il cartello, un francesone dai capelli bianchi e la faccia gioviale, lavava energicamente pantaloni, calze e maglietta… Fuori dal rifugio, due lunghi stenditoi, pieni di indumenti lavati e svolazzanti. E andava ancora bene: uno di noi si è ritrovato nel lavandino di fianco un altro francese che lavava accuratamente la sua dentiera… Questi, almeno, non appartenevano alla categoria degli «sporchi».
Altre abilità che la vita in rifugio fa emergere sono quelle che scopri in occasione dei giochi del dopocena, quando anche dei banalissimi «Scarabeo» o «Shangai» sono capaci di tirar fuori il campione che è in te. Per esempio, io ho scoperto di avere una predisposizione particolare per «Shangai»: pensate che sono riuscita a recuperare un bastoncino con la sinistra (e sono destra), in modo inconsapevole, mentre ne avevo puntato un altro, tra lo stupore degli astanti e anche di me… Poi c’è stato anche chi ha cercato di recuperare il bastoncino fermandone l’estremità con un dito e l’altra estremità con l’altro dito (peccato che un’estremità fosse di un bastoncino e l’altra estremità di un altro bastoncino… effetti della birra).
Ancora un paio di brevi argomenti, uno di questi è quello che chiamerei «l’esperienza collettiva» che la montagna offre, e che consiste nel fatto che l’esperienza di un altro può aiutare la buona riuscita della tua. Come si esplica tutto ciò nella pratica? Direi fondamentalmente in due modi. Uno di questi consiste nello sfogliare il registro delle presenze, posto solitamente all’ingresso del rifugio, nel quale l’escursionista annota nome e cognome, provenienza e destinazione: quando hai scorso 5… 10… 15 pagine e non trovi nessuno con la tua stessa provenienza/destinazione, allora devi farti qualche domanda…
Soprattutto relativamente alla fattibilità dell’itinerario che hai alle spalle o che hai prospettato (ad esempio la traversata compiuta l’anno scorso sulle Dolomiti di Brenta per raggiungere il rifugio XII Apostoli era l’unica in tutte le cento pagine del registro!!!... E dico la verità che avrei avuto un po’ sulla coscienza chi, forte di quella lettura, avesse osato rifare lo stesso percorso… eravamo quasi tentati di cancellare tutto). Così, la sera, alla vigilia dell’ultima tappa, sfogliai il registro e, dopo ben 4 pagine, trovai finalmente scritto che un tipo proveniva da Pecol (la nostra prossima e ultima destinazione)… Poi scorsi ancora altre pagine… niente… Beh, dai… «uno su mille ce la fa»… Ce la faremo anche noi. Sì, perché noi siamo famosi per questa sorta di «percorsi alternativi» che suscitano sempre in coloro che incontriamo lungo i sentieri due tipi di reazione: c’è chi ci fa i complimenti e chi ci guarda dicendo semplicemente «ah…», che, tradotto, significa «voi siete matti».
Oltre al registro delle presenze, un altro strumento molto utile è internet, non solo per consultare le previsioni meteo, ma anche per andare sulle pagine del Corriere del Veneto o su qualunque altro quotidiano delle zone di montagna e cercare la lista di tutti gli incidenti gravi e/o mortali occorsi… E allora capisci cosa devi evitare: ad esempio, abbiamo letto «alpinista cerca di infilarsi la giacca sul ghiaione, precipita e muore»… Così, il giorno dopo, lungo un ghiaione bello impegnativo dove era difficile stare in piedi anche da fermi, con il sole delle 11 a picco sul «coppino», tentata di togliermi lo zaino per tirare fuori la crema solare, edotta da quella notizia, optai per scottarmi il «coppino».
Ecco, questa è la «mia» montagna, o, almeno, una parte di essa; le cose da raccontare sarebbero molte di più, ma quella più importante è questa: che, nonostante quelle che chiamiamo «difficoltà» (la fatica, i vari mal di gambe, di spalle, di schiena… di tutto, il caldo, il freddo, la paura), la montagna non ti toglie il sorriso, permettendoti di divertirti, di arricchirti sempre di belle esperienze, di più: di respirare bellezza - come già dicevo -.
Della bellezza ho già parlato altre volte; oggi vorrei aggiungere che il sorriso è una declinazione della bellezza.
Il sorriso è la chiave della vita, l’ago della bilancia, il segreto per non sentirsi mai falliti… Non a caso, la frase della Bibbia che preferisco è quel versetto che dice «se ne ride chi abita i cieli» (Sal 2,4): ecco, un Dio che ride, questo è il Dio che prego... E me lo immagino davvero ridere mentre guarda a quelle magagne iperbolizzate in cui ci intrichiamo, a quelle maschere di serietà di cui ci rivestiamo per tenere un ruolo, a quelle preghiere cervellotiche che servono solo a sentirci tutti un po’ teologi titolati, professionisti del credere, mercenari di una falsa fede alimentata a discorsi e anoressica nei confronti della vita e del mondo che il Signore ci ha affidato.
Un Dio che ride e che anche in questi giorni ci ha accompagnato con il suo sorriso: questo è il Dio a cui mi consegno e con cui, scesa dalla montagna, ricomincio a portare avanti gli impegni di tutti i giorni lungo i sentieri della mia vita quotidiana… I pennelli (e non solo) sono lì che mi aspettano.
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