In questi giorni di caldo, di sole, d’estate e - per noi parmigiani e provinciali- di tortelli, in tanti sono alle prese anche con esami, concorsi e graduatorie e vi garantisco che questi ultimi ambiti non fanno sudare meno dei primi citati. E, tra battute, messaggi, scambi di informazioni condivisi da quei che stanno tutti su una stessa barca, forse pochi sanno che gli insegnanti non parlano solo degli alunni, ma anche di loro stessi: sì, perché, a partire da requisiti, titoli di accesso, competenze, ecc., alla fine si arriva sempre a chiedersi che razza di insegnanti siamo o siamo stati. E, nella scuola come nella vita, «essere insegnante» non è un optional; non a caso uso l’espressione «essere» insegnante e non «fare» l’insegnante, perché l’insegnare è sinonimo di cura e di responsabilità: due tra le perle più preziose che la razza umana possa vantare.
Uso il termine «razza»… che non vuole avere un tono dispregiativo, nemmeno ambisco a diventare conduttrice di Superquark, però da persona attenta e rigorosa qual sono, capite bene che non si può fare di ogni erba un fascio; sappiamo che quando parliamo di tigri, non esiste un solo tipo di tigre; che quando parliamo di vipere, non esiste un solo tipo di vipera, perché ci sono le «razze» a complicare o ad arricchire la faccenda.
Ecco, anche nel variegato mondo degli insegnanti, esistono le razze.
Nel parlare comune, l’insegnante è quello che fa tre mesi di ferie all’anno; quello che finite le 4-5 ore a scuola, ha poi tutto il pomeriggio libero da dedicare ai suoi hobbies; quello che basta acquistare un titolo, passare un concorso e poi è a posto tutta la vita; quello che viene pagato indipendentemente dal merito e che con un certificato medico può stare a casa quando e quanto vuole senza perdere il posto…
Luoghi comuni, verità, menzogne… ciascuno la pensi come vuole.
La cosa che deve farci riflettere è che non è possibile che la «razza» di un insegnante sia lasciata meramente alla scelta soggettiva del singolo di voler e saper essere un bravo insegnante oppure uno che vuole solo portare a casa uno stipendio facendo girare il motore dell’impegno al minimo. C’è un problema a monte, che è quello dei criteri con cui ai nostri ragazzi vengono assegnati degli insegnanti.
A scuola si vive una sorta di paradosso: da una parte, una mancanza di oggettività tale da non avere nemmeno un cartellino da timbrare per vedere se arrivi in orario; dall’altra, il fatto di poter ottenere un posto di lavoro sulla base di titoli e concorsi di un’oggettività tale da sorvolare sulle competenze specifiche e sulle capacità umane e relazionali indispensabili per chi dovrebbe essere un professionista dell’educazione, della relazione e dell’istruzione.
C’è un’oggettività tale per cui il titolo di studio di cui sei in possesso ti permette di insegnare materie per le quali non avresti alcuna competenza e, al contempo, lo stesso titolo ti impedisce di insegnare materie per le quali avresti competenze ed esperienza.
Mi chiedo se sia così difficile trovare un modo per selezionare personale capace, competente e umanamente adeguato e motivato… Forse sì. O, forse, siamo di fronte ad una sorta di leggerezza (con cui ci siamo abituati a convivere) in ambito educativo e scolastico, perché non si considera fino in fondo che un educatore/insegnante che non è tale, e che non è in grado di esserlo, può fare danni non meno di un medico incompetente o di un magistrato corrotto.
Anche qui… questione di dati oggettivi: con il medico incompetente, ci scappa il morto o il danno permanente; con il magistrato corrotto ci scappa il mafioso in libertà e il giudice ucciso… Dati oggettivi. Ma, un insegnante che non è tale, cosa «produce»?… Ignoranti? Ignoranti che escono con la media dell’8 (il voto, dato oggettivo, ma è veramente oggettivo?) dato dallo stesso insegnante… Ma, un ragazzo che ha un cattivo insegnante, rischia di essere «solo» ignorante?
Proviamo ad uscire da qui, anche se è difficile.
L’estate scorsa, in occasione del tour dolomitico per rifugi, a cena ci siamo ritrovati a tavola con una coppia padre-figlio che l’indomani si sarebbero cimentati in una scalata nel gruppo di Brenta. In montagna, il tavolo del rifugio attorno al quale si condivide la cena, diventa una sorta di cappellina nella quale si consuma una sorta di preghiera laica (ma forse neanche troppo) in cui si raccolgono e si mettono insieme i pezzi della giornata trascorsa, si gustano bellezza e fatica, si ride e ci si confronta e si pensa all’indomani. Mentre ci si guarda in faccia con il naso arrossato dal sole, quando la sedia ti accoglie e rimanda alle ossa la scarpinata del giorno appena concluso, subito ci si saluta con i compagni di tavolo che fino a quel momento non conoscevi, ma che li senti in qualche modo vicini, perché hanno fatto la tua stessa fatica per arrivare fino lì. All’inizio, ciascuno sta un po’ sulle sue, ci si guarda attorno e si sceglie cosa si mangerà, finché… finché ti portano l’immancabile boccale di birra e allora si comincia a parlare e a scambiare battute con i compagni di tavolo. Vi starete chiedendo perché questa lunga premessa che sa quasi di inutile digressione… Beh, perché parlare non è solo scambiarsi informazioni (così come insegnare non è solo buttare nozioni sulla cattedra), e ciò che si mette sul tavolo in un rifugio di montagna è anche frutto di quel bagaglio comune che è la passione e la fatica condivisa a cui la montagna, con la sua pedagogia, ti costringe e alla quale si brinda soddisfatti: è questo il sentiero sul quale si cammina e per cui non si rimane più solo compagni di tavolo, ma, poco alla volta, si diventa quasi compagni di cordata… almeno fino al mattino dopo.
Comunque, durante questa cena, il papà-scalatore ci illuminò su molte cose, e ricordo che ci illustrò tutto l’iter che un’aspirante guida alpina deve fare per poter raggiungere questo «traguardo professionale».
Alla fine di tutto, ci disse che proprio a causa di questa selezione così dura, era impossibile che uno potesse arrivare ad essere guida alpina per caso o solo per amore di uno stipendio… E giustamente! Queste persone hanno in mano la vita di altri loro simili!
Ecco, allora, alzo metaforicamente il mio boccale di birra che voglio condividere con tutti voi che pazientemente mi avete seguita fino a qui e che siete seduti con me al tavolo del vostro pc, e mi chiedo perché anche per diventare insegnanti professionisti non esista un iter e relativi «cancelli» che garantiscano di poter esercitare questa professione solo quando si hanno in mano doti, competenze, passione e motivazioni tali che i ragazzi che ci vengono affidati siano in buone mani.
Ci rendiamo conto che la cordata alla quale sono assicurati i nostri ragazzi è una questione vitale, delicata e preziosa?
La sparo grossa (ridete pure, se volete, ma riflettete anche): ricordiamoci che se esistono ancora mafie, criminalità, bullismo, frodi, violenze e scarsa professionalità nel mondo del lavoro, forse è anche perché noi insegnanti non aiutiamo abbastanza i nostri ragazzi a diventare uomini e donne veri, perché non siamo «professionisti in umanità» e lasciamo che il male sia più affascinante del bene, della virtù, della dignità, dell’onestà.
Ho detto che insegnare non significa solo buttare nozioni sulla cattedra, ma offrire esempi, punti di riferimento, metodi, strumenti, umanità.
Tra le icone ce n’è un tipo (una «razza»), che è quella della Madonna «Odighitria» (colei che indica la via), nella quale Maria tiene in braccio, in modo quasi distaccato Gesù (via, verità e vita) e lo indica. Ecco, questa potrebbe essere l’icona dell’insegnante, che mostra (ma non dimostra) una via possibile, un esempio significativo, un punto di riferimento, ma che, poi, ciascuno deve assimilare nella propria vita, nella propria condizione, secondo le proprie capacità, mettendo in gioco i propri sogni, i desideri, i talenti e anche la personale fatica per costruire quello che è il proprio progetto di vita.
Chissà se arriverà un giorno in cui il «luogo comune» sarà che fare l’insegnante è un lavoro faticoso, di responsabilità e di quelli che ti porti dentro 24 ore su 24, perché, come diceva don Bosco, «l’educazione è cosa del cuore» e il cuore non smette di battere con la fine dell’orario di lavoro, anche quando ci faranno timbrare il cartellino.
Insegnanti: abbiamo tra le mani vite, vite umane, fragili e in una fase delicata, in cerca di identità e di punti di riferimento. Anche per noi deve valere la regola che, se lavoriamo male… ci scappa il «morto», che possiamo chiamare fallimento, delusione, smarrimento, irrisolutezza, rimpianto e ciascuno aggiunga quel che vuole, ché il mercato del negativo e dei giovani che non riescono a diventare adulti offre molta merce.
Il compito di un insegnante non è quello di cambiare il mondo a forza di parole, di burocrazia, di progetti e di rendicontazioni, ma quello di aiutare i ragazzi che ci sono affidati ad arrivare in cima… con le loro gambe, facendo fatica (noi e loro)… e poi alzare con loro il boccale di birra, a dirsi, contenti, «che bello, ce l’abbiamo fatta!»… sentirsi ed essere uomini, donne, persone vere.
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