Benvenuto in questo blog, nato per chi ama le icone, per chi vorrebbe conoscerle (chi parte da zero e chi ne è già stato conquistato), per chi vorrebbe condividere un tempo di preghiera davanti all'icona e per chi avrebbe il desiderio di arrivare a "scriverne" una... e poi tante altre.

mercoledì 4 gennaio 2017

L’intercessione con la scopa in mano


Ed ecco che il nuovo anno porta con sé la prima figura che ha meritato di entrare a far parte del «Calendario dei santi nascosti» (vedi qualche post fa): «la nostra Rina!».

Per chi, tra i lettori, non lo sapesse, la Rina è stata per anni la sagrestana, ma, soprattutto, la «barista» al bar del prete di Colorno, quello che oggi chiamano oratorio, ma che, per tutti, era, è e rimane «il prete».
Voce del verbo «andar dal prete»:

voleva dire andare al campetto asfaltato, proprio accanto al muro della chiesa, particolarmente quello che racchiudeva la sporgenza della cappella del Santissimo Sacramento, quel muro di confine dove lodi, rosari e bestemmie convivevano direi quasi armoniosamente, facendo annoiare un po’ meno quelli che abitano i piani alti del Cielo e ricordando che la fede non è cosa scontata e dai contorni ben delineati come i muri di un edificio.
Voce del verbo «andar dal prete»: voleva anche dire andare a buttare le ossa sotto il portico (quello a fronte del quale un giorno don Nando ci spiegò l’etimologia del termine «fornicare») a spettegolare, a raccontarsela, al ritmo del rumore delle palline del ping pong e del calcio balilla, sempre, ogni tanto, intervallati dal suono di qualche imprecazione, tutto sotto lo sguardo del Crocifisso di san Damiano, che, se non si è scandalizzato della gioventù di san Francesco, di sicuro sapeva guardare con amore e fiducia anche i giovani che il portico accoglieva.
Voce del verbo «andar dal prete», poi, voleva dire varcare la porta del bar, dare la «consegna», sentire per tutta la giornata il juke box cantare la stessa litania fatta dalle 3-4 canzoni hit del momento, le solite imprecazioni di quelli che giocavano ai videogiochi (finché ci sono stati), i tavolini dove le ragazze guardavano «Cioè» negli anni ‘80 e i messaggi del telefonino nell’era dell’euro, mangiando distrattamente «cavatappi» e «coca cole» di zucchero (le porcherie) raccolte nei tovagliolini monovelo… Il tutto non più sotto lo sguardo del Crocifisso di san Damiano, ma di quello attento e vigile della Rina: una miniera di aneddoti, in cui sapeva dire e andare al cuore della realtà e delle persone con poche lapidarie parole.
Di fronte a quelle che possiamo definire eufemisticamente «marachelle» dei giovani che frequentavano «il prete», la Rina (nessuna laurea in psicologia, pedagogia e affini) sapeva intervenire senza lunghe prediche sul senso della vita, senza citare il Vangelo, il papa e i documenti magisteriali, semplicemente con un’espressione capace però di rimettere tutto in ordine, quasi fosse una di quelle formule magiche uscite da un film di Walt Disney (anche se io l’avrei sempre vista meglio in un episodio della serie «Peppone e don Camillo»): «Sa Ragass, poc casén!».
Già, perché qualcuno disse che «l’educazione è cosa del cuore»: questo ne è l’essenza e il segreto, che la Rina possedeva al fondo di quella sua corazza forte, schietta ed energica.
La Rina era così e, se dovessi farne l’icona, non potrebbe essere che con il cappotto abbottonato ben stretto, il fazzoletto in testa e la scopa di saggina in mano… spesso corredata dal secchio della segatura che, quando andavamo a chiedergliela per l’allestimento del presepe di Natale, sembrava quasi che ci desse quello che per lei era l’oro dei Re magi, con cui rendeva onore al Signore.
E anche adesso, che ci guarda da lassù, io la immagino così, davanti al Signore: con lo stesso cappotto marrone abbottonato ben stretto, il fazzoletto, quel corpo a campana e il volto rivolto verso l’alto (certo, verso l’alto, perché lei era più bassa anche di me e perché Gesù senz’altro deve essere alto almeno un metro e ottanta… Ve lo immaginate, voi, Gesù basso, magari grassottello, senza «tartaruga» né bicipiti… No, eh?!), verso il suo Signore, senza che la silhouette del mento potesse staccarsi da tutto il resto, con la stessa posizione con cui guardava Franco (il marito), alto e magro: storia dell’eterna legge degli opposti che si attraggono e stanno bene insieme.

Anche lassù la immagino così, sempre con la scopa di saggina in mano a perpetrare un’insolita intercessione a suon di scopate, sì, proprio verso il Signore.


Non so se avete presente l’icona della «Deesis»… Deesis vuole proprio dire «supplica» ed è quel tipo iconografico in cui al centro abbiamo Gesù e, ai lati, in primis la Madonna e san Giovanni, con le mani rivolte verso il Cristo (eventualmente, poi, la fila può essere ampliata aggiungendo arcangeli e altri santi sempre con la stessa postura delle mani rivolte verso di lui) ad offrirGli le preghiere della Chiesa di quaggiù. In questa fila io mi immagino anche la Rina, che, però, in una delle mani tiene la scopa di saggina, a rivolgere al Signore un’intercessione più energica, non flemmatica e sarafica, come siamo abituati a pensarla per la Madonna, gli angeli e i santi, ma a suon di scopate.
Qualcuno starà pensando che sono blasfema; eppure anche Giacobbe fece a botte (e di brutto) con Dio (Gen 32,23-33) e vinse e venne da lui benedetto; anche Giobbe ebbe il becco di voler pretendere da Dio una giustificazione a fronte di quel che stava soffrendo e, alla fine, Dio risollevò Giobbe e cazziò i «teologi» saputelli. E potrei aggiungere altro… Ma la Bibbia la conoscete anche meglio di me.
Ricordiamoci solo, a fronte di questi ed altri personaggi come loro, che non è peccato se ogni tanto ci è capitato di desiderare l’intercessione di una santa con la scopa in mano, perché è sbagliato travestire la rassegnazione chiamandola «croce» e «volontà di Dio», mascherare la resa con «soffro per Cristo con Cristo ed in Cristo», perché la croce è lotta e… vittoria, ce lo insegna l’icona della Discesa agli inferi (di cui, però, parleremo più avanti, a suo tempo). Mi fermo, perché anche la teologia la conoscete e non voglio annoiarvi con queste prediche, finendo per risultare quasi stonata di fronte ad un personaggio che di prediche ne faceva poche.
E allora non mi sento di essere blasfema, se immagino la Rina che tira qualche scopata al Signore chiedendogli di avere un occhio di riguardo per quelli a cui la vita ha negato o tolto qualcosa, vuoi per una malattia, un lutto inatteso, precoce o comunque sempre doloroso; a quelli che la vita ha deluso dal punto di vista professionale o familiare; a quelli cui la vita ha negato sogni, progetti, risultati attesi, desiderati o meritati, quelli che la vita ha preso a schiaffi senza lasciare nemmeno lo scampolo di un perché… Insomma, a tutti quelli che sentono da troppo tempo la mancanza di un sorriso profondo nel loro cuore, come se la luce fosse improvvisamente venuta a mancare, per tutti loro è necessaria l’intercessione di una santa con la scopa in mano.
Mi piace pensarla così, la prima santa annoverata nel mio calendario, così come il buon ladrone fu il primo nel calendario di Gesù Cristo.
E, quando arriverò là anch’io, sono certa che la troverò così: non con la cintura ai fianchi e la lucerna accesa (cf. Lc 12,35), ma con il cappotto marrone ben abbottonato, il fazzoletto in testa e la scopa di saggina in mano.
Con lei, seduti al tavolino del bar, quasi come nella pubblicità del caffè Lavazza, quei giovani che al bar del prete ci venivano, ma che hanno dovuto riconsegnare la vita ancora troppo presto ed ora là, seduti e sorridenti, come nelle foto con cui abbiamo voluto ricordarli, ascoltano il juke box e giocano a briscola, contenti, perché adesso hanno la Rina, come era quaggiù ai bei vecchi tempi, a chieder la «consegna» e ogni tanto a gridare l’urlo di battaglia: «sa, Ragass, poc casén!»… Perché la Rina, seduta senza far niente, proprio non ce la vedo
Allora, guardandomi attorno, quell’angolo di Cielo, pulito con la segatura come fosse l’oro dei Re magi, non potrà sembrarmi più bello e luminoso.


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