Senza Incarnazione non c’è iconografia, ma non c’è nemmeno il cristiano:
sembra una sciocchezza, ma a volte forse ce ne dimentichiamo, cadendo nell’eresia di vivere un falso cristianesimo che somiglia più ad una bandiera svolazzante, tanto evidente quanto superficiale ed effimera, trasportata dal vento leggero di uno spiritualismo fatto di frasi fatte, slogan e cliché, ma che non ha più nulla da dire, da dare e da annunciare a questo mondo, in questo mondo, con questo mondo (e direi che le preposizioni che ci interessano sono finite), che Dio ha tanto amato, al punto da donarci ciò che aveva di più prezioso (cf Gv 3,16), al punto da donarceLo non tanto appoggiandolo su questa terra come una statuina del presepe, ma impastandolo fino alle midolla con la materia di questo mondo, bella e difficile.
Ecco, credo che questo sia il primo pensiero quando alzo la testa e rivolgo lo sguardo al Natale che ci sta davanti; ma, per non lasciarlo cadere, la riabbasso verso la mia tavoletta gessata, l’icona in fieri.
Dipingere (o «scrivere», sempre per i palati più fini che mi seguono) un’icona in tempo di Avvento è un’occasione preziosa per fissare lo sguardo verso la giusta direzione, in particolare quando ci si cimenta nella pittura del volto con la tecnica del sankir’.
Sankir’: non è una parolaccia che il correttore ha dimenticato di segnalarmi, anzi!
Provo a dirla in poche parole: quando si dipinge un’icona, dopo la doratura si fa una prima grafia, che consiste nel riprendere i contorni delle figure, le linee delle pieghe dei vestiti e delle parti anatomiche (volto, occhi, naso, bocca, mani, piedi); praticamente, alla fine di questa fase, abbiamo davanti una tavola con il disegno in bianco, scontornato di nero o di grigio (non entro troppo nei particolari… chi vorrà, vedrà).
Quindi (lasciamo per ora perdere vestiti, montagne, architetture, ecc. che andremo a campire), il volto viene ricoperto da una serie di strati di un colore composto, il sankir’, appunto (solitamente terra verde, ocra gialla, ocra calda) che a vederlo ricorda tanto il fango (… ma non solo: quando andai a Mosca, venivano servite certe minestre il cui colore venne paragonato al «sankir’ perfetto»… Il resto della questione lo lascio alla vostra fantasia e al vostro divertimento); si danno tante mani di colore; alla fine ciò che ci appare è un volto, il volto del Signore, ricoperto di fango fino quasi a farne scomparire i lineamenti scuri originari sottostanti… Questa per me è l’Incarnazione: la storia di un Dio impastato di fango, un Dio che si impasta con la mia miseria, ma anche con i miei desideri, le mie gioie, le relazioni, le fatiche, i sentimenti, il lavoro, il quotidiano, la morte; un volto in cui fai quasi fatica a scorgere i lineamenti divini sottostanti, li intravedi appena (non sono persi del tutto, perché poi vengono ripresi), eppure quella massa verde-marrone che li ricopre è sempre il volto del Signore, il volto di un Dio impastato di fango.
I contemporanei di Gesù non lo avevano riconosciuto come figlio di Dio, sì perché lui era il Dio impastato di fango e un Dio impastato di fango è sempre un problema riconoscerlo… Era un problema un Dio che andava a ballare ad una festa di nozze, che andava in trattoria (più o meno) a festeggiare, che toccava un lebbroso o che si lasciava toccare da una donna sanguinante, che dava corda ad una cananea e ad una samaritana, ai peccatori e alle prostitute (anche se, leggendo il vangelo, sembra quasi che queste due ultime parole, dette allora, non avessero il peso che hanno oggi… sembra quasi che, accanto al nome «Gesù», il peccatore sia comunque una persona, normale e dignitosa, e anche la prostituta; invece, dette di persone di oggi, queste due parole piacciono poco, sanno di roba che va tenuta lontana).
Altri tempi… Noi oggi sappiamo, noi oggi abbiamo capito, noi oggi giudichiamo quelli che duemila anni fa non hanno riconosciuto quel Dio impastato di fango… Noi oggi sappiamo riconoscere il Dio impastato di fango, sì, ma quello di duemila anni fa; invece… Quello di oggi? Quello che incontriamo tutti i giorni nella nostra vita quotidiana? Quello a cui dovremmo assomigliare anche noi?
Non è che, forse, noi abbiamo riconosciuto il Dio impastato di fango di duemila anni fa e lo abbiamo lasciato là dov’era?
Quello di oggi, dov’è… perché io lo possa accogliere?
Com’è… perché io lo possa imitare?
O, forse, non è che anche noi oggi siamo rimasti fermi a duemila anni fa, là dove il Dio impastato di fango non è stato riconosciuto? Non è che anche noi oggi ci sentiamo bravi cristiani perché citiamo a memoria i versetti della Bibbia, ma, poi, alla prova della vita, siamo rimasti là, fermi, dove il Dio impastato di fango non è stato riconosciuto, accolto, seguito?
Nell’icona, quei lineamenti scuri del volto vengono coperti di «fango», ma per poi essere ripresi e a quel fango viene di nuovo donata la luce; tuttavia, se non ci fosse quello strato di «fango» sottostante, non vedremmo neanche la luce, i tratti vivi, la luminosità del volto e quindi la sua bellezza: quanto è prezioso quel fango! Lo ripeto: è grazie a quel fango che noi possiamo dipingere (e vedere) la luce del volto.
Che questo Avvento possa essere l’occasione per aprire gli occhi, per lasciarci aprire gli occhi, per poter riconoscere il Dio impastato di fango che cammina sulle nostre strade.
Che bello dipingere (scrivere) icone! Che bello fare il sankir’… Vedere, toccare con mano e cercare di amare questo Dio, impastato di fango.
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