
Parto da questo modo di intendere l’insegnamento per dire quanto sia preziosa, a tal proposito, un’icona a scuola, in classe.
Gli antichi cicli pittorici nelle chiese vennero definiti «la Bibbia dei poveri», espressione che, ad un primo impatto, può suonare quasi come dispregiativa o minimalista, ma che tale non è (forse solo perché «povertà», nella cultura odierna, è una parola dal suono stonato). La gente lo sapeva e, quando entrava in una chiesa, subito era portata a volgere lo sguardo verso l’alto e a respirare la bellezza delle opere che nutrivano la fede; per questo possiamo aggiungere che l’immagine dipinta non era solo un aiuto per chi non poteva permettersi di leggere; ma era al contempo espressione di una fede che racchiudeva in sé il valore dell’«essenzialità» e che pure sapeva essere coinvolgente, chiara ed eloquente.
Oggi, che i ragazzi poveri non sono (almeno a giudicare dagli smartphone che tengono in mano), e tantomeno essenziali, amaramente constato che lo sguardo è sempre più rivolto verso il basso, verso lo schermo illuminato del loro «smart». A vederli, ti chiedi se parole come «bellezza», «meraviglia», «stupore» esistano ancora: i dizionari le hanno tenute, nonostante sempre meno persone (non solo ragazzi) ne facciano realmente esperienza; ci si accontenta di quello schermo che illude di risolvere ogni sete e ogni perché.
Di fronte a questa generazione, definita «touch», confesso che mi crea sempre un po’ di imbarazzo entrare in una classe con in mano un’icona, una tavola di legno, un uovo e alcune polveri colorate, per parlare di quell’arte antica dove si fa tutto a mano (dai, allora anche l’icona possiamo dire che sia un po’ «touch»), che richiede tempo, dedizione, fatica, pazienza e obbedienza... ci si sente quasi come in una foto «in bianco e nero»; e l’imbarazzo fa sì che sia sempre difficile partire, iniziare il dialogo. Eppure, negli anni, mi sono accorta che questo è un problema secondario, perché poi è l’icona stessa che parla ed io sto lì solo a prestarle la voce; è l’icona che si racconta, che torna a farlo come i dipinti nelle antiche chiese, che suscita domande, curiosità, stupore; è la bellezza che coinvolge e che, alla fine, riesce a far sollevare le teste dei ragazzi che ho davanti e a fargli chiedere: «ma perché non possiamo fare queste cose a scuola?». Ecco che, allora, dopo che l’incontro si era riacceso, torna l’imbarazzo iniziale, perché, di fronte alla sete di bellezza e di essenzialità che l’incontro con l’icona ha fatto emergere, a scuola non ci sono i mezzi e le condizioni per rispondere. Anche questa è povertà, ma, anche in questo caso, «povertà» può non avere quel suono stonato che spesso le diamo, perché la povertà di un «non poter fare» (sottinteso qui, in questo momento) può diventare «un giorno spero di poter fare» ed il suono della povertà si arricchisce della dolce melodia del «desiderio», che è bello quando messo alla prova, anche quella del tempo, purificato dalla pazienza, dal saper aspettare, custodendo nel cuore ciò che vorrei fare e che potrò fare quando sarà arrivato il momento. L’esperienza dell’icona, come tutto ciò che è «esperienza», negli anni rimane e chissà che lo studente «sapiente», capace di far tesoro delle cose significative, un giorno non abbia voglia di ritirar fuori tutto e voler provare a prendere in mano grembiule, pennelli e colori e a sentirsi un po’ anche lui «in bianco e nero» e, paradossalmente, «touch» allo stesso tempo.
Esperienza, curiosità e passione. Fai parlare più spesso le icone in classe, dietro e dentro ci sei anche tu.
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