«Affascinante», «incomprensibile», «curiosa», «triste», «enigmatica», «bella»… E potremmo continuare all'infinito, se volessimo catalogare la vasta gamma di reazioni immediate che tanti di noi hanno provato le prime volte che si sono affacciati al mondo dell’icona.
Accostare un’icona non è un vedere, ma un camminare: sì, perché un’icona, prima la guardi, poi, nel continuare a guardarla, ti viene quasi da entrarci dentro e, quando avviene questo passaggio, allora arrivi a sentirti guardato dall’icona, afferrato dalla sua storia antica o recente e, lì, inizia un cammino.
Quando mi trovo in qualche gruppo a parlare dell’icona, per introdurre le persone in questo «mondo», quale che sia l’immagine che porto con me e che metto davanti al loro sguardo (il Pantocratore o la Discesa agli inferi, una Madre di Dio o le Mirofore al sepolcro, san Giorgio o l’Ingresso a Gerusalemme… solo per dirne alcune), il primo sussulto in genere mostra una gamma di sguardi che varia dall’attrazione curiosa allo scetticismo annoiato; l’amore scocca quando pian piano le persone si sentono condotte dentro l’icona, nel racconto della sua storia: non nelle vicende dell’iconoclastia o cose del genere (pure importanti ed interessanti), ma nella sua storia personale, quella in cui gli elementi della natura (legno, pietre, uova, vino, gesso, oro…) si lasciano fare dalle mani dell’iconografo per dare vita ad un’immagine che parla di Dio, del suo Regno, del destino che ci attende e della sua presenza che in vari modi ci accompagna qui ed ora.
Accostare un’icona non è un vedere, ma un camminare: sì, perché un’icona, prima la guardi, poi, nel continuare a guardarla, ti viene quasi da entrarci dentro e, quando avviene questo passaggio, allora arrivi a sentirti guardato dall’icona, afferrato dalla sua storia antica o recente e, lì, inizia un cammino.
Quando mi trovo in qualche gruppo a parlare dell’icona, per introdurre le persone in questo «mondo», quale che sia l’immagine che porto con me e che metto davanti al loro sguardo (il Pantocratore o la Discesa agli inferi, una Madre di Dio o le Mirofore al sepolcro, san Giorgio o l’Ingresso a Gerusalemme… solo per dirne alcune), il primo sussulto in genere mostra una gamma di sguardi che varia dall’attrazione curiosa allo scetticismo annoiato; l’amore scocca quando pian piano le persone si sentono condotte dentro l’icona, nel racconto della sua storia: non nelle vicende dell’iconoclastia o cose del genere (pure importanti ed interessanti), ma nella sua storia personale, quella in cui gli elementi della natura (legno, pietre, uova, vino, gesso, oro…) si lasciano fare dalle mani dell’iconografo per dare vita ad un’immagine che parla di Dio, del suo Regno, del destino che ci attende e della sua presenza che in vari modi ci accompagna qui ed ora.
È la storia che affascina chi si accosta all’icona per la prima volta (adulti, ragazzi, giovani) ed è la storia che affascina anche me ogni volta che prendo tra le mani questi materiali e comincio il mio lavoro di iconografa: affascinante, ogni giorno come se fosse il primo.
È questo «andare a Dio attraverso le cose» la «storia personale» dell’icona, di ogni icona; quella che racconto ogni volta alle persone, che, dopo averla ascoltata, si lasciano dietro le spalle i tanti aggettivi (positivi o negativi che fossero) del loro primo approccio a queste immagini e si aprono al desiderio di entrare in questo cammino, in questa storia che li ha afferrati; non perché enigmatica, criptica o straordinaria, ma che si scopre essere affascinante, forse proprio perché così vicina al loro quotidiano.
Ed è così che, dal punto di domanda iniziale, entrando nella «storia» dell’icona, in ciascuno si apre la porta al desiderio di avere un «angolo bello» nella propria casa, nel proprio quotidiano, dove poter attingere alla presenza costante del Signore, del suo sguardo, della sua benedizione, della sua consolazione.
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